In precedenza, una siffatta colpa specifica non era attribuibile al medico, vista l’assenza di qualsiasi legge in argomento. Prima della legge di stabilità 2015, la cura omessa o insufficiente era eventualmente prospettabile solo in termini di colpa generica.

La prima delle due frasi che costituiscono il comma 566 dell’art. 1 della legge 23 dicembre 2014, n. 190 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)” recita: “Ferme restando le competenze dei laureati in medicina e chirurgia in materia di atti complessi e specialistici di prevenzione, diagnosi, cura e terapia, con accordo tra Governo e regioni, previa concertazione con le rappresentanze scientifiche, professionali e sindacali dei profili sanitari interessati, sono definiti i ruoli, le competenze, le relazioni professionali e le responsabilità individuali e di equipe su compiti, funzioni e obiettivi delle professioni sanitarie infermieristiche, ostetrica, tecniche della riabilitazione e della prevenzione, anche attraverso percorsi formativi complementari.”

Per quanto concerne l’esercizio delle professioni sanitarie, questa prima frase del comma 566 è scomponibile in tre parti logiche come schematizzato nella tabella che segue: fra la prima, che riguarda la professione del medico-chirurgo e l’ultima, relativa alle professioni sanitarie, è inserita una parte intermedia che si riferisce all’insieme di tutte le professioni appena menzionate.

 

Parte prima Parte “comune” Ultima parte
fermo restando… sono definiti…
competenze ruoli, competenze, relazioni professionali e responsabilità compiti, funzioni e obiettivi
laureati in Medicina e chirurgia professioni sanitarie

 

In questo articolo, mi limito a proporre una analisi della prima di queste tre parti, poiché il suo contenuto merita di essere focalizzato con una trattazione specifica per le innovazioni che comporta e per le loro potenziali conseguenze anche sotto il profilo giuridico in materia di valutazione della responsabilità professionale medica in ambito penale e civile. Rinvio ad una successiva nota le riflessioni che scaturiscono dallo studio delle rimanenti due parti, poiché il loro peculiare contenuto, non omologabile a quello della prima parte, rende opportuna una trattazione autonoma e separata. D’altro canto, mi sono già espresso in merito al comma 566 nella sua globalità in altro articolo pubblicato in questa stesso Quotidiano Sanità il 3 febbraio 2015, e ad esso quindi rimando per i collegamenti fra gli aspetti specifici riguardanti la professione medica ora trattati e quelli di carattere generale.

Schematicamente, questa prima parte in analisi prospetta tre tematiche relative alla professione di medico-chirurgo, così individuabili riprendendo il testo del comma 566:
a) ferme restando le competenze dei laureati in medicina e chirurgia;
b) in materia di atti complessi e specialistici;
c) di prevenzione, diagnosi, cura e terapia.

In merito al punto a), è ben noto che le competenze medico-chirurgiche non sono definite da alcuna legge specificamente attinente l’esercizio professionale nella sua globalità. Quali competenze, dunque, secondo il comma 566, restano ferme? Le alternative possibili sono tre, potendo trattarsi delle competenze che derivano, rispettivamente, dalla prassi, da altre leggi o da altre fonti normative. Sulle competenze connesse alla prassi è superfluo soffermarsi. Quanto alle altre leggi, mi riferisco all’ordinamento didattico universitario ed in particolare agli obiettivi formativi qualificanti della classe delle lauree specialistiche in medicina e chirurgia – 46 S. Preso atto che gli obiettivi formativi qualificanti non corrispondono esattamente alle competenze, osservo che comunque la lettura del testo dell’ordinamento didattico ora ricordato non è particolarmente utile per individuare le competenze del medico-chirurgo, poiché esso adotta una terminologia piuttosto generica; il passo che forse meglio caratterizza gli elementi costitutivi dell’esercizio della professione medica è quello che afferma l’obiettivo di “affrontare e risolvere responsabilmente i problemi sanitari prioritari dal punto di vista preventivo, diagnostico, prognostico, terapeutico e riabilitativo”.

La fonte normativa diversa dalla legge, cui sopra alludevo, cioè il codice di deontologia medica, propone una definizione che si assesta sull’ordinamento didattico universitario, ma fornisce qualche ulteriore precisazione. Il secondo comma dell’art. 3 del codice di deontologia medica recita infatti: “Al fine di tutelare la salute individuale e collettiva, il medico esercita attività basate sulle competenze, specifiche ed esclusive, previste negli obiettivi formativi degli Ordinamenti didattici dei Corsi di Laurea in Medicina e Chirurgia e Odontoiatria e Protesi dentaria, integrate e ampliate dallo sviluppo delle conoscenze in medicina, delle abilità tecniche e non tecniche connesse alla pratica professionale, delle innovazioni organizzative e gestionali in sanità, dell’insegnamento e della ricerca”. Nella concezione del codice citato, dunque, il dettato dell’ordinamento didattico non basta per definire le competenze mediche e va integrato ed ampliato secondo quanto riportato nell’art. 3: nella definizione delle competenze si inserisce pertanto una dimensione dinamica, essendo contemplate competenze ulteriori rispetto a quelle acquisite con la formazione universitaria di base.

In definitiva, il disposto del comma 566, per cui le competenze mediche restano ferme, è da considerare ambiguo o quantomeno superficiale per vari motivi; infatti, dette competenze: i) non sono espressamente contemplate come tali da alcuna legge dello Stato; ii) sono insufficientemente descritte – e comunque solo estrapolabili dagli obiettivi formativi – nell’ordinamento didattico universitario; iii) vanno integrate e ampliate con modalità e principi, quali quelli esplicitati nel codice di deontologia medica, che le rendono dinamiche.

Circa il punto b), è sufficiente prendere atto che il comma 566 si riferisce solo agli “atti complessi e specialistici” della professione medica, e non agli atti non complessi e non specialistici della medesima professione. Il comma 566 non dichiara – come alcuni interpreti sembrano suggerire – che gli atti medici sono tutti complessi e specialistici, né afferma che gli atti complessi e specialistici in ambito sanitario sono esclusivamente medici. Non vi è corrispondenza concettuale fra le “attività basate sulle competenze, specifiche ed esclusive” dell’art. 3 del codice di deontologia medica, sopra citato, e gli atti complessi e specialistici del comma 566. Se gli aggettivi “specifico” dell’art. 3 e “specialistico” del comma 566 possono evocare vaghe similitudini, il temine “esclusivo” (o altro ad esso assimilabile) non figura nel comma 566.
In sintesi: le competenze dei laureati in medicina e chirurgia attengono a tutti gli atti, non solo a quelli complessi e specialistici, di prevenzione, diagnosi, cura e terapia, che non sono comunque contemplati dal comma 566 come specifici ed esclusivi.

Il punto c), che contempla la suddivisione degli atti medici – non sempre, come poco sopra considerato, complessi e specialistici – in prevenzione, diagnosi, cura e terapia, riveste peculiare interesse per due motivi.
Il primo motivo consiste nel fatto che questa è la prima legge italiana che si riferisce all’esercizio della professione di medico-chirurgo, indicandone espressamente le quattro attività costitutive. Ciò ha valore a prescindere da qualunque considerazione circa la genesi e gli obiettivi del comma 566, ed in particolare a prescindere dal fatto che il legislatore intendesse effettivamente fornire una descrizione dell’attività medico-chirurgica. Valutando unitariamente quanto sopra esposto circa il punto b), discende dunque la seguente definizione: formano oggetto della professione di medico-chirurgo gli atti (non necessariamente complessi e specialistici) inerenti alla prevenzione, alla diagnosi, alla cura e alla terapia.
Non intendo qui soffermarmi sulla qualità di questa definizione, ma desidero solo sottolineare che oggi questa, del tutto aderente al comma 566, è l’unica, e la prima, definizione dell’attività professionale del medico-chirurgo ricavabile da una legge dello Stato.

Un vizio del mio ragionamento può essere prospettato in considerazione del lessico, ancora una volta ambiguo, adottato nel comma 566. Il disposto in commento riguarda infatti i “laureati in medicina e chirurgia”. È imperscrutabile la scelta del legislatore di riferirsi ai soli “laureati”, senza comprendere anche gli abilitati all’esercizio professionale. La sola attendibile ipotesi è che si tratti di una imprecisione terminologica, ché altrimenti, qualunque significato si voglia attribuire al comma 566, esso tenderebbe al surreale se lo si intendesse applicabile solo e soltanto ai medici-chirurghi non ancora abilitati.

Il secondo motivo di interesse – veramente straordinario – del punto c), è dato proprio da uno dei quattro elementi menzionati come costitutivi dell’attività medica: la cura. Sul concetto di cura è possibile soffermarsi a lungo. Ma in questa sede, per semplicità, conviene ridurre la questione all’essenziale, senza tuttavia banalizzarla. In sintesi, dunque, la fondamentale domanda cui occorre dar risposta è la seguente: nel comma 566, il legislatore, quando cita la “cura”, attribuisce al sostantivo il significato della presa in carico della persona e dell’impegno attivo nei suoi confronti da parte del medico, oppure quello, secondo i casi, della somministrazione o della prescrizione di trattamenti farmacologici o dell’esecuzione di interventi chirurgici? Per esprimersi con un lessico anglosassone abbastanza diffuso, che sfrutta un gioco di parole intraducibile in italiano, questa “cura” del comma 566 corrisponde ad attività assimilabili al to care o, rispettivamente, al to cure?
La risposta è facile, perché, una volta tanto, la lettura del comma 566 è semplice. Cura è qui distinta da terapia: entrambe le attività caratterizzano la professione medico-chirurgica, talché ad ognuna va attribuito un significato specifico e proprio. La terapia è indubitabilmente tale, perciò alla cura deve essere attribuito lo specifico significato di presa in carico.

Incidentalmente, segnalo che nell’ordinamento didattico universitario, classe delle lauree specialistiche in medicina e chirurgia – 46 S, fra gli obiettivi formativi qualificanti del medico-chirurgo non compare mai il sostantivo “cura” o il verbo “curare”. Il passo citato all’inizio, per esempio, si limita a menzionare i punti di vista preventivo, diagnostico, prognostico, terapeutico e riabilitativo. In base al comma 566, al medico compete dunque sia la terapia, sia la cura. Si tratta di un concetto fondamentale, che acquista maggior valore dato che esso è coerente con una indicazione, anch’essa nuova (2014) nella formulazione testuale, del codice di deontologia medica. L’art. 20 di questo codice è innovativamente rubricato “Relazione di cura” e reca un testo, ben diverso rispetto alla precedente versione, che afferma, tra l’altro, “l’alleanza di cura fondata sulla reciproca fiducia e sul mutuo rispetto dei valori e dei diritti” e richiama “autonomie e responsabilità”, rispettive, del medico e del paziente.

Le valutazioni emerse dalla precedente analisi, e soprattutto quelle da ultimo sviluppate, evidenziano la carica innovativa della prima parte della prima frase del comma 566, per quanto l’espressione introduttiva del comma stesso sia quel “ferme restando”, i cui limiti ho comunque esposto. Ritengo che le novità sopra segnalate siano foriere di conseguenze significative e pertanto meritevoli di attenzione.

In estrema sintesi, al medico compete la cura del paziente (secondo la previsione testuale dell’art. 20 del codice di deontologia) o, più estensivamente, della persona (stante la indeterminatezza, circa questo aspetto, del comma 566). Questa cura, per quanto indica espressamente l’art. 20 del codice di deontologia, è un aspetto della responsabilità del medico. Ad analoga conclusione porta l’analisi del comma 566, che non adotta la parola responsabilità, ma cita le attività costitutive delle competenze, che stanno ovviamente alla base della responsabilità del medico.

La chiara esplicitazione dell’attività di cura fra le competenze del medico postula una sua responsabilità dilatata, dai confini incerti, la cui valutazione è prevedibile possa entrare nelle aule dei tribunali, qualora al medico venisse contestata una condotta non adeguata proprio sul piano della cura e che abbia comportato conseguenze rilevanti sotto il profilo penale e/o civile. Può così diventare nodale – al fine di definire la responsabilità giuridica in questi casi – il concetto di cura esigibile dal medico-chirurgo. In particolare, le questioni specifiche possono essere diversificate e risultare di complessa soluzione, soprattutto in relazione a circostanze peculiari, mal catalogabili, che ipotizzo di seguito, sotto forma di quesiti da risolvere, rifacendomi comunque ad una casistica di realtà. La cura va garantita dal medico al solo paziente o alla persona in genere? Fino a che punto il medico si deve attivare per farsi autenticamente carico del paziente o della persona? Rendere il paziente consapevole della propria malattia rientra nella cura? Quale cura in relazione a chi rifiuta la terapia (anche in considerazione dei diversi obiettivi, di volta in volta, della terapia rifiutata)? O in relazione a chi non dichiara i propri sintomi, o a chi si esprime con comunicazione non verbale, o allo straniero che non conosce la lingua italiana in assenza di mediatore culturale? In questi casi, occorre attivarsi e coinvolgere l’entourage della persona stessa? E ancora, quale cura nei casi nei quali il medico è stato interpellato dalla persona occasionalmente, al di fuori della sede istituzionale, per esempio per strada?

Che la cura rientri fra le competenze del medico non è un concetto nuovo, postulato dal comma 566. Si tratta di una competenza intrinsecamente connaturata alla professione medica, nonché a qualunque professione sanitaria. Ora, nel comma 566, la cura assume enfasi per la forma e la forza che il disposto di legge conferisce ad essa, come competenza del medico-chirurgo espressamente dichiarata. Stante il comma 566, la cura omessa o insufficiente può dunque rientrare fra i profili di colpa specifica, per inosservanza di legge, ex art. 43 del codice penale. In precedenza, una siffatta colpa specifica non era attribuibile al medico, vista l’assenza di qualsiasi legge in argomento. Prima della legge di stabilità 2015, la cura omessa o insufficiente era eventualmente prospettabile solo in termini di colpa generica, costitutiva della negligenza del medesimo art. 43, poiché la cura era da considerare quale dimensione alta e positiva della diligenza.

Il comma 566, prima parte, prima frase, potrà dunque vivere di vita propria, perché innovativo in tema di “cura”, da garantire in osservanza alla legge, potendo così risultare alla base di profili di colpa specifica, sinora improponibili.

Daniele Rodriguez
Professore ordinario di Medicina legale nell’Università degli Studi di Padova

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